BUONA PASQUA
Carissimi fratelli e sorelle, Buona Pasqua a tutti voi!
E’ un augurio che ci scambiamo anche quest’anno in mezzo alle mille difficoltà che ci sta creando questa pandemia, sentendo il bisogno non tanto di espletare una formalità di rito, ma di trovare parole dettate da sentimenti autentici e basate su forti convinzioni, con le quali regalarci a vicenda serenità e coraggio, conforto e passione per andare avanti.
Mai, come in questa situazione, l’augurio di Buona Pasqua risuona in tutta la sua ricchezza come l’invito a “passare oltre” alle presenti difficoltà e ancor di più a tutti quei sentimenti e quegli atteggiamenti che giorno dopo giorno anche inavvertitamente inaridiscono la nostra interiorità e sterilizzano la nostra capacità di amare, unica fonte di una gioia sensata e duratura.
Domenica scorsa siamo entrati nella settimana santa ricordando l’ingresso messianico di Gesù in Gerusalemme e proclamando il grande racconto della passione e morte del Signore secondo Marco, nel quale durante il processo subito dalle autorità religiose , alla domanda del Sommo Sacerdote “sei tu il Cristo il Figlio del Benedetto?” Gesù finalmente rivela la sua identità rispondendo: “Io lo sono”, rivelazione a cui si apre un soldato romano che vedendolo morire in quel modo dirà: “Davvero quest’uomo era Figlio di Dio”. Dunque, dopo aver annunciato la prossimità di Dio e del suo Regno, dopo averne manifestato la forza guarendo da malattie e liberando dalla schiavitù del male, facendo del bene a tutti, è proprio nel modo di morire che Gesù manifesta non solo tutta la sua fede ma la stessa identità di Dio, rivelandocelo come Colui nel quale abita la pienezza di quell’amore che può dare senso e motivazioni all’esistenza di ogni persona che rinunciando a vivere nell’egoismo e nella ricerca esclusiva del proprio interesse, vuole ogni giorno di più cercare di donare la propria vita per gli altri, come ha fatto il Maestro nazareno.
Giovedì scorso celebrando l’ultima cena del Signore abbiamo ricordato, pur senza poterla rivivere con un gesto concreto, la lavanda dei piedi, e poi abbiamo ripetuto il gesto dello spezzare il pane e del condividerlo unitamente al calice del vino: metterci umilmente gli uni ai piedi degli altri per fare dono di noi stessi, come Gesù ha fatto con noi. Non c’è niente di più grande di questo e questo è il comandamento nuovo, cioè definitivo, che esprime il senso di tutto il resto: amatevi come io ho amato voi! Ogni volta che riviviamo questo segno sentiamo l’Apostolo Paolo rivolgerci le parole: abbiate in voi gli stessi sentimenti di Cristo Gesù, come a dire che davanti a Colui che si dona per noi, che muore sulla croce, come di nuovo abbiamo rivissuto nel venerdì santo, non sono sufficienti l’ammirazione, la commiserazione, la devozione, il pietismo… ma occorre assimilare il suo modo di sentire, cioè di aver fede, lo stesso modo di guardare la realtà, lo stesso modo di determinarsi al dono di sé, rinunciando a vivere in concorrenza con gli altri, con l’ansia di dimostrare di essere superiori agli altri, con l’obiettivo di centrare tutto quello che rientra nel proprio interesse.
Ora finalmente, intorno alla mensa, sotto la croce, davanti ad un sepolcro vuoto… chi vuole essere discepolo comprende dove porta il cammino, perché lo si inizia e perché lo si porta avanti con fedeltà e determinazione, perché non si torna più indietro neanche nel momento della difficoltà e della prova inattesa: perché da quella croce e da quella tomba ormai vuote, su cui l’amore è stato innalzato per sempre come l’unica realtà più forte della morte, Gesù continua a farci comprendere che non c’è niente di più grande, di più significativo e appassionante che dare la vita per gli altri (Gv 15,13), nient’altro che questo, niente di più divino e niente di più umano.
“Chi cercate?”. Sono le parole che risuonano nella notte di Pasqua. Gesù le aveva rivolte ai discepoli dal primo incontro e più volte riproposte anche in forme diverse per far crescere la loro fede. Esse oggi rimbalzano su di noi, decisive come sempre. “Chi cercate?”. Un guaritore? Uno che vi libera dalla fatica e dalla paura? Uno che vi risolve tutti i problemi? Uno che vi appaga con opinioni sostenibili e convincenti espresse al meglio? Uno che fa cose straordinarie che nessun altro sa fare? “Chi cercate?”. Gente così la trovate nei libri di storia e potete visitare le loro tombe in monumentali cimiteri.
“Perché cercate tra i morti colui che è vivo?”. Gesù è vivo, irriconoscibile per coloro che non frequentano le Sacre Scritture, ma capace di trasfigurare l’esistenza di coloro che sanno cogliere la sua presenza in ogni parola che ha il sapore del “passare oltre” e in ogni gesto che contiene in se la “squisitezza del donare”. Se è Lui che cerchi allora si stanno già accendendo le prime luci dell’alba e potrai cominciare a raccontare anche tu come Maria di Magdala, come Pietro, come Giovanni, come Paolo… che la tua vita è divenuta tutta un’altra cosa da quando lo hai incontrato, lo hai amato e nei tuoi occhi brilla la sua stessa luce e nel tuo cuore brucia la sua stessa passione.
Buona Pasqua a tutti, con la certezza che il Cristo risorto farà di voi persone meravigliose.
Fra’ Mario.
CON LO SGUARDO FISSO SOLO SU DI LUI

Carissimi fratelli e sorelle,
il brano di Vangelo di questa quarta domenica di Quaresima è tratto dal capitolo terzo di Giovanni in cui tramite la forma letteraria di un dialogo tra Gesù e un membro del sinedrio, Nicodemo, uno dei “capi dei Giudei” come li chiama l’evangelista, ci viene presentato il superamento della dottrina giudaica della “vita eterna” come premio che Dio, in qualità di giudice supremo, conferisce a coloro che se lo meritano. Con quali argomenti Gesù smonta questa tesi che, a ben vedere, è ancora tanto presente nella mentalità di molti cristiani?
Il Maestro nazareno inizia ricordando un episodio emblematico dell’Esodo narrato nel libro dei Numeri (21,4-9): il popolo protesta contro Dio e contro Mosè che li hanno condotti a morire nel deserto con un itinerario mal progettato e senza senso. Allora per punizione essi si imbattono in un territorio abitato da serpenti velenosi e molti muoiono. Per il pentimento del popolo e la preghiera di Mosè Dio chiede che sia innalzato su un palo un serpente di rame perché chiunque lo guardi sia guarito, non dall’oggetto in se, che sarebbe magia, ma dalla preghiera a Lui, Salvatore di tutti (come preciserà il libro della Sapienza 16,5-7). Come Dio ha salvato il popolo in quella situazione particolare attraverso l’innalzamento del serpente di rame, ora Egli offre un segno del suo grande amore per il mondo, ossia anche per quell’umanità che non vive in sintonia con Lui, innalzando il Figlio dell’uomo, cioè facendolo passare dalla morte alla vita attraverso la crocifissione/glorificazione, perché tutti mediante il dono del suo Figlio Unigenito abbiano la vita.
Dio, prosegue Giovanni, non manda il Figlio a giudicare e condannare, quindi premiare o castigare a seconda della qualità delle azioni dell’uomo, ma a salvare, a dare la possibilità di vivere un’esistenza nuova, piena di senso, di amore e di gioia, che ha inizio proprio quando si accoglie il Figlio nella propria vita (si guarda a Lui), ci si lascia folgorare dalla grandezza del suo amore e lo si assimila: questa è l’esperienza che genera una nuova vita. Chi non accoglie questo grande dono si condanna da solo a vivere un’esistenza insignificante, che produce solo fallimento.
Siamo, dunque, invitati a superare la mentalità a cui accennavo sopra che ci ha condotti a farci un immagine di Dio come di un giudice giustizialista e a pensare che la vita eterna sarà un premio finale riservato ai più buoni. Gesù ci offre tutta un’altra prospettiva che investe il nostro presente, il nostro quotidiano, che si fonda non sulla sostenibilità delle dottrine riguardanti il dopo morte o sulle dottrine morali che prevedono ricompense per le opere buone, ma sul fatto che Lui ci ha amati donando tutto se stesso per noi, come leggiamo anche nella seconda lettura di oggi in cui Paolo afferma perentoriamente: “Per grazia siete stati salvati mediante la fede; e ciò non viene da voi, ma è dono di Dio; ne viene dalle opere perché nessuno possa vantarsene”.
E’ necessario passare quanto prima, se ancora vi siamo invischiati, da una religiosità dell’autoproduzione della salvezza, dell’essere bravi per avere dei crediti nei confronti di Dio, o, viceversa, dell’essere pieni di sensi di colpa per le proprie debolezze e cadute e di conseguenza sempre nella necessità di pratiche espiatorie o di intercessioni di questo o quel protettore, ad una fede che può dirsi autentica se fondata sull’adesione piena alla persona e al messaggio di Gesù, Colui che ha accettato di farsi debole fino alla morte di croce pur di amarci fino alla fine, mosso dalla certezza che Dio è un papà che non abbandona mai nessuno al proprio destino, che ci accompagna e sostiene in ogni vicenda della vita, che è sempre pronto a dare una “qualità” inaspettata al nostro vissuto: il sapore dell’Eterno, inteso non come attesa di un qualcosa dalla durata illimitata, ma come esperienza profonda di quell’amore gratuito che rende umili, grati, generosi e felici da oggi, ogni giorno di più.
Questa luce che brilla sul mondo, l’energia trasfigurante dell’amore gratuito, può essere accolta o rifiutata. Questo è il giudizio: sta alla libera decisione di ogni persona accogliere il dono di Dio o tirarsene fuori. E’ una realtà che Giovanni ci ha presentato dall’inizio: “la luce splende nelle tenebre, ma le tenebre non l’hanno accolta (1,5), il Crocifisso innalzato da una parte rivela l’iniziativa amorevole e gratuita del Padre, ma dall’altra purtroppo anche il massimo rifiuto di essa. L’amore non si impone ne agisce automaticamente, si offre e chiede di essere accolto, chi lo fa passa così dalle tenebre alla luce e le sue opere divengono luminose. E’ questo ciò che ci viene proposto anche nel discorso della montagna: “Così risplenda la vostra luce davanti agli uomini, affinché vedano le vostre buone opere e glorifichino il Padre vostro che è nei cieli” (Mt5,16). Glorifichino il Padre che è l’autore della nostra trasformazione, il potenziatore della nostra libertà, la sorgente di opere che non nascono dal nostro desiderio di affermazione e gratificazione, ma dal nostro rimetterci liberamente e responsabilmente nelle sue mani, come afferma Paolo nel brano succitato: “Siamo infatti opera sua, creati in Cristo Gesù per le opere buone, che Dio ha preparato perché in esse camminassimo”.
La Pasqua che si avvicina alimenti in noi allora il desiderio, e non l’ambizione, di essere liberati dalle nostre zone d’ombra, per agire in quel modo “meraviglioso” proprio di coloro che non hanno occhi se non per guardare a quell’amore gratuito innalzato per sempre sul trono della croce.
Buona settimana, fra’ Mario.
DIO NON E’ IN VENDITA

Carissimi fratelli e sorelle,
entriamo oggi nel ciclo delle tre domeniche che ci preparano alla Pasqua mediante le immagini del nuovo tempio, del serpente di bronzo e del chicco di grano.
Al centro della Liturgia della Parola c’è il racconto del furore profetico di Gesù all’interno del Tempio di Gerusalemme trasformato ormai in un mercato, tratto dal Vangelo di Giovanni. E’ interessante notare ancor prima di addentrarci nei dettagli del racconto che questo è uno dei pochi episodi che il Vangelo di Giovanni ha in comune con i Sinottici, soltanto che mentre questi ultimi lo collocano nell’ultima settimana di vita di Gesù, Giovanni lo colloca all’inizio della sua narrazione, all’interno del secondo capitolo, che apre quella che chiamiamo la sezione dei segni rivelatori dell’identità di Gesù, in cui egli ci offre il quadro programmatico della sua opera. Questo spostamento, in effetti, non è di natura cronologica, per cui non ha senso starsi a domandare quando avvenne realmente, ma di natura teologica: con il racconto delle nozze di Cana e della purificazione del Tempio (contenuto del capitolo secondo) Giovanni vuole cominciare ad introdurci nel senso più profondo della missione di Gesù: è lui il Messia, il Figlio di Dio che con il dono di sé da inizio al banchetto messianico della salvezza e al nuovo culto, che non si avvarrà più della mediazione del Tempio ma che attraverso il dono del suo Spirito, comunicato da Lui Crocifisso e Risorto, darà ai credenti la pienezza della comunione con Dio e la sua stessa vita.
Certo che tutti noi lettori, immaginando in Gesù la presenza di un carattere mite e pacifico, sulle prime rimaniamo meravigliati nel sentirci raccontare di questo attacco d’”ira funesta” che portò il Maestro nazareno a cacciare a frustate tutti fuori dal tempio, comprese pecore e buoi, e a rovesciare i banchi di lavoro di commercianti e cambiavalute, poi possiamo in qualche modo comprenderlo e giustificarlo: la frusta di cordicelle richiama il messia purificatore descritto in alcuni testi rabbinici, d’altra parte anche a noi oggi danno fastidio i luoghi di culto in cui l’aspetto mercato prende il sopravvento, sia che si vendano presunte immagini sacre, come benedizioni e indulgenze o souvenirs di vario genere. Lo stesso evangelista inoltre richiama una frase del salmo 69: lo zelo per la tua casa mi divorerà… quindi, da una parte una reazione furente costatando che il Tempio da dimora di Dio tra gli uomini era stato ridotto ad un mercato, dall’altra una “passione divorante” nei confronti di Dio, divorante al punto che gli costerà la vita.
I giudei (con questa espressione Giovanni intende i sacerdoti e i capi del popolo), infatti, gli contesteranno questo modo di comportarsi chiedendogli: “quale segno ci mostri per fare queste cose?”, cioè con quale legittimità, o chi ti dà l’autorità di fare questo? La risposta di Gesù ha del sorprendete “Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere”. I giudei che non avevano posto la domanda per comprendere meglio l’identità di Gesù ma proprio per delegittimarlo, anzi sappiamo che nel processo religioso ci saranno testimoni che giureranno di aver sentito Gesù dichiarare di voler distruggere il Tempio (Mt 26,61), ironizzano sulle capacità di questo super architetto. In realtà, l’ironia fa parte dello stile narrativo di Giovanni, che in più parti sottolinea l’incapacità dei giudei di comprendere il linguaggio simbolico di Gesù, infatti aggiunge che essi non capivano che Egli parlava del tempio del suo corpo, non solo ma gli stessi discepoli arriveranno a comprenderlo solo dopo la sua risurrezione.
E proprio qui noi comprendiamo il senso preciso di questo episodio: Gesù non ha semplicemente voluto “purificare il tempio”, riportarlo alla sua funzione originale di luogo sacro dedicato alla preghiera, ma ha voluto affermare con forza che la sua funzione era terminata, così come la vita religiosa ad esso collegata, come rivelerà più avanti alla donna samaritana: “ viene l’ora in cui ne su questo monte (il Garizim, sul quale i samaritani avevano costruito un tempio distrutto nel 128 a.c., simile, ma alternativo a quello di Gerusalemme) ne a Gerusalemme (nello splendido tempio in cui erano ancora in corso i lavori di restauro iniziati da Erode il grande) adorerete il Padre… ma viene l’ora ed è questa in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in Spirito e verità: così infatti il Padre vuole che siano quelli che lo adorano” (Gv 4,22-23). “Spirito e verità”, cioè la piena rivelazione di Dio nella morte e risurrezione di Gesù, dalla quale viene in noi lo Spirito, la vita stessa di Dio. Non c’è dunque più bisogno di tempio per chi incontra il Risorto e attinge a Lui il dono della vita nuova che fa del cercatore di Dio un risorto, libero dall’asservimento ai riti espiatori a pagamento offerti nel tempio. Viene da chiedersi: perché una vita di fede così intesa, come libera apertura all’azione trasfigurante dello Spirito di Dio, nel corso dei secoli ha finito per lasciare il posto di nuovo ad una religiosità del tempio? Non vi sembra quanto mai attuale la provocazione di Gesù?
Giovanni conclude il racconto con una nota: “molti vedendo i segni che Egli compiva credettero nel suo nome. Ma Lui, Gesù, non si fidava di loro…”. Come dire che Gesù non era alla ricerca di facili consensi, né nutriva molta stima di quanti hanno continuamente bisogno di assistere a qualcosa di prodigioso per professarsi convinti o di quanti esprimono ammirazione o vivono di emozioni transitorie senza tuttavia cambiare radicalmente il proprio stile di vita. Un’osservazione estremamente valida oggi per la nostra comunità che anziché generare dei risorti, continua a portare avanti, nonostante il cambiamento epocale che stiamo vivendo, una religiosità ancora fondata sull’indottrinamento, sulla partecipazione più o meno assidua a sontuose ma sterili parate liturgiche, sull’accumulo di benefit, da procurarsi il più delle volte mediante offerte o prestazioni meritorie, per assicurarsi l’ingresso in paradiso. Ma la vita divina non è in vendita… E’ un dono e un dono da vivere a cominciare da oggi.
Buona settimana a tutti.
Fra’ Mario.
Aderire al vangelo con dedizione e fedeltà

Carissimi fratelli e sorelle,
mercoledì abbiamo iniziato il cammino verso la Pasqua con il rito altamente espressivo dell’imposizione della cenere sul nostro capo.
Mi verrebbe subito da osservare che quest’anno iniziamo i quaranta giorni della quaresima all’interno di una quaresima che a causa della pandemia in corso stiamo vivendo ormai da lungo tempo… giorni di grande sofferenza che ci fanno avvertire come non mai il senso della nostra precarietà, tutta la crudezza di quelle parole pronunciate da Dio all’uomo a seguito del peccato delle origini: polvere tu sei e in polvere ritornerai (Gen 3,19), che accompagnavano fino a qualche anno fa il gesto dell’imposizione della cenere. E come non pensare, mentre il Vangelo del giorno delle ceneri ci ripropone il senso autentico di alcuni dei cosiddetti “pilastri” delle religioni come il digiuno, la preghiera e l’elemosina, a quanti a motivo della malattia non avvertono più i sapori, o a coloro che muoiono in estrema solitudine a cui è possibile stare vicino solo con la preghiera, o a quanti per la perdita del posto di lavoro non resta che elemosinare un qualche aiuto?
In questo contesto, allora, possiamo forse meglio comprendere in che senso la Quaresima è un “momento favorevole” (2Cor 6,2), un tempo cioè in cui più che ripetere le parole e i gesti di sempre sono davvero necessari ancora una volta silenzio e discernimento, per rimettere a fuoco i valori per i quali abbiamo deciso di spendere la nostra vita e tradurli con crescente convinzione e passione in motivazioni per il nostro agire quotidiano, o comunque averli sempre presenti come punti di riferimento che permettono di non venire meno in un tempo di prova.
Se faremo questo in qualche modo stiamo già rispondendo alla domanda che ci poniamo tutti: come ne usciremo da questa prova?
Il brano di Vangelo di Marco che leggiamo in questa prima domenica di quaresima dell’anno ‘b’ ci offre un’”istantanea” (appena una ventina di parole) di come Gesù ha vissuto il tempo della prova prima di iniziare la sua missione.
Rispetto alle versioni di Matteo e di Luca, che con tutta una serie di citazioni bibliche ricordano le prove del popolo ebraico in diversi momenti della sua storia (a cui ci richiamano gli elementi simbolici: il deserto, il tempio, il regno) e con l’artificio letterario di uno spettacolare duello dialettico con il diavolo, le mostrano finalmente superate da Gesù, che può così iniziare ad edificare il nuovo mondo di Dio, il racconto di Marco è molto scarno di particolari e ci spinge a cercare altrove i contenuti della prova, in tanti contrasti dialettici con i farisei, ma soprattutto in quel drammatico momento di preghiera solitaria nel Getsemani in cui chiedeva al Padre: “Allontana da me questo calice! Però non ciò che io voglio ma ciò che vuoi tu” (Mc 14,36).
Da tutti i suoi momenti di prova, all’inizio come alla fine della sua attività evangelizzatrice, Gesù ne esce più motivato e determinato che mai, nella più completa fedeltà a Dio, in una piena libertà da se stesso, pronto per un amore totale.
La prova dunque non è un incidente di percorso, né l’essere tirati dentro a una sorta di battaglia tra spiritelli tentatori e angioletti difensori, ma è un passaggio obbligato della vita di noi credenti come lo è stato per lo stesso Gesù, un’occasione che si ripresenta in tanti momenti dell’esistenza per verificare la propria fedeltà al progetto di Dio, che non può essere mai data per scontata, per crescere nella fiducia in Lui, per lasciare la guida del proprio cammino al suo Spirito, per essere sempre più consapevoli che tutto ciò che ci separa o ci oppone a Lui (il “satanico” per definizione) ci fa correre il rischio della chiusura in noi stessi e di fallire gli obbiettivi più importanti della nostra vita.
Per questo nella preghiera del Padre nostro continuiamo a invocare Dio di “non metterci alla prova” (questo è il senso delle espressioni “non ci indurre in tentazione” come dicevamo prima e “non abbandonarci alla tentazione” come diciamo adesso), non per evitare le nostre responsabilità o vivere tranquillamente una fede che non costa nulla, ma per non venir meno alla nostra fedeltà e non vivere il nostro impegno quotidiano confidando solo sulle nostre idee o sulle nostre forze, ma nella confidenza e nel contatto continuo con Colui che può portarci sempre aldilà dei nostri momenti no.
Il brano di oggi ci offre ancora quelle che vengono riportate come le prime parole pronunciate da Gesù dopo la prova nel deserto: “Il Regno di Dio è vicino, convertitevi e credete al Vangelo”. Pur nella precarietà e nella debolezza le persone non sono vittime di forze occulte o chiamate ad affrontare prove sovrumane, ma piuttosto a fare esperienza della vicinanza di Dio, a riporre in Lui la propria fiducia, e determinarsi per un deciso cambio di mentalità e di passo. Al contrario, se il credente si costruisce una religiosità a propria misura, rifugiandosi nella tranquillizzante ripetizione di pratiche scaramantiche per esorcizzare la paura delle proprie debolezze o dei presunti agguati di nemici invisibili, finisce per smarrire l’obiettivo fondamentale della propria vita: l’adesione al Vangelo che trasforma l’esistenza, unica realtà che merita una dedizione totale e una piena fedeltà.
Buona settimana a tutti, fra’ Mario.
Sono uscito nel bene e nel male

SONO USCITO PER FARE DEL BENE
Carissimi fratelli e sorelle,
per qualche domenica prima dell’inizio della quaresima leggiamo con continuità il Vangelo di Marco. Lo abbiamo già fatto tante altre volte per cui almeno a grandi linee ne conosciamo il progetto narrativo, cioè i contenuti che questo scrittore vuole comunicarci e il suo stile, le caratteristiche della sua lettura di fede e il suo mondo culturale… la proposta del cammino da percorrere per essere coinvolti dal Vangelo e non rimanere solo dei lettori ma diventare discepoli del Signore Gesù. Queste cose vanno tenute sempre presenti se vogliamo che il testo ci parli ancora e possa essere connesso con la realtà così diversa da allora in cui viviamo e con le nuove prospettive e i nuovi scenari che ci si aprono davanti.
Quello che Marco vuole farci scoprire passo dopo passo è che Gesù è il Cristo, non nel senso del messia atteso per fare risorgere un regno ebraico, ma di inauguratore del vero Regno di Dio, è il Figlio dell’uomo venuto per servire a dare la propria vita in riscatto dei peccati, è il Figlio di Dio che ha con Lui una relazione unica della quale vuole far partecipi tutti gli uomini. La sua attività principale è quella di evangelizzare (il racconto della sua azione evangelizzatrice verrà appunto chiamato “vangelo”), cioè non solo predicare una dottrina o insegnare dei precetti morali, ma rendere presente e operante la parola autorevole ed efficace del Padre. Chi vuole dargli fiducia deve dapprima conoscerne la vera identità, indicata man mano dalle sue parole e dalle sue opere e poi camminare dietro a lui assimilandone lo stile di vita, divenendo cioè discepolo e quindi evangelizzatore a propria volta.
Ascoltando allora, passo dopo passo, domenica dopo domenica, il Vangelo di Marco prenderemo dimestichezza con il modo particolare con cui egli vuole portarci alla conoscenza sempre più profonda di Gesù: non con il resoconto dettagliato della sua vita o dei suoi insegnamenti, ma piuttosto offrendoci degli “indizi”, suscitando degli “interrogativi”, dal segno nella sinagoga di Cafarnao, nella prima giornata di “azione”, al terrore delle donne davanti alla tomba vuota… Chi è questa persona? Come mai ha una parola così autorevole? Come è possibile che si verifichino certe cose? Come mai muore così? Perché la tomba è vuota? Non esistono risposte logiche ed esaustive, dimostrazioni evidenti, sta alla fede, alla ricerca personale, ad una lettura capace di tenere insieme il reale con dimensioni più profonde, trovare il modo di orientarsi, perché dal modo di “capire” Gesù dipenderà poi l’impostazione di tutta la propria vita.
Proviamo, dunque, a lasciarci guidare da Marco in questo percorso già da queste prime domeniche, terza, quarta e quinta, in cui leggiamo il racconto della prima giornata di “azione evangelizzatrice di Gesù” sulle rive del lago e nel villaggio di Cafarnao… una giornata completa, ricostruita magari su quanto vissuto quotidianamente in un lasso di tempo ben più ampio, che si apre con la chiamata dei primi discepoli, poi la preghiera in sinagoga, il pranzo in casa di Pietro, la cura dei malati dopo il tramonto, il riposo notturno e la preghiera all’alba, la partenza per l’evangelizzazione di altri villaggi… Tenendo presente che un conto è la riflessione domenicale, l’omelia, e un altro è lo studio e l’approfondimento completo di un testo, cerchiamo per il momento di soffermarci su qualche elemento su cui fondare il nostro cammino settimanale.
Da notare, innanzitutto, come Marco avvia il racconto: l’azione evangelizzatrice di Gesù inizia in giorno di sabato, il giorno in cui Dio dovrebbe riposare e l’uomo con Lui, nella sinagoga, il luogo della proclamazione della Parola e dell’espressione comunitaria dell’adesione di fede… qui la parola di Gesù viene riconosciuta come autorevole e lascia addirittura sbalorditi il suo potere sugli “spiriti immondi” (secondo l’immaginifico linguaggio orientale)… più avanti impareremo a capire dove sta la novità del maestro nazareno: per lui l’amore per l’uomo è superiore al precetto del riposo sabatico e le parole di Dio non possono essere ridotte a prescrizioni legalistiche che se garantiscono la correttezza formale tuttavia non possono sostituirsi all’unica forma autentica di fede che è l’aprirsi totalmente all’azione dello Spirito. L’azione di Gesù inizia, dunque, laddove maggiore è la necessità di cambiamento e, cioè, il cuore stesso di una religiosità che svuota l’agire di Dio della sua forza innovatrice e imprigiona l’uomo all’interno di un sistema in cui l’obbedienza alle regole e ai detentori del potere sacro prende il sopravvento su un processo di liberazione e di promozione integrale della persona.
In giorno di sabato Gesù fa cose che non andrebbero fatte: guarisce e libera dai demoni, due azioni probabilmente simili tra loro se non identiche, ma mentre la prima esprime una pienezza di umanità nel prendersi cura dell’altro, la seconda esprime un azione propria di Dio: liberare l’uomo dai propri malesseri interiori e dalle proprie schiavitù. La suocera di Pietro che giace per la febbre, allo stesso modo in cui un morto giace nella tomba, viene presa per mano e rialzata da Gesù, allo stesso modo in cui si ridà vita a un morto, e la febbre se ne andò, allo stesso modo in cui davanti a lui si faranno indietro il tentatore e la stessa morte… La sera, dopo il tramonto (in quella lunga notte di dolore come dice Giobbe) ancora malati e indemoniati e ancora guarigione e liberazione: c’è aria di risurrezione, di vita nuova, di qualcosa di appena iniziato che non va gridato ai quattro venti, ma che bisogna lasciar agire lentamente e progressivamente, si è davvero solo ciò che si diventa ogni giorno di più, e solo quando una cosa arriva al suo compimento allora puoi apprezzare la grandezza anche di un umile inizio.
E ancora, una delle rare “foto” di Gesù: all’alba, da solo, in un luogo deserto, su una collinetta o in riva al lago, in preghiera… c’è da commentare o da contemplare?… verrebbe da chiedere: conosci l’esperienza di un’alba di preghiera che rende luminoso e pieno di colori il nuovo giorno?
“Tutti ti cercano”, dicono a Gesù gli Apostoli non appena lo rintracciano… “Andiamo altrove… a predicare anche là… per questo sono uscito” la sua risposta, quasi a dire: non sono venuto per essere cercato, per essere ammirato, per avere uno stuolo di followers e ricevere una marea di like, come gli strafighi di oggi, ma per cercare, per incontrare, per coinvolgere, per fare del bene e poi insieme andare ancora altrove, laddove ci sarà bisogno di noi. Un programma di missione a cui ai nostri giorni Papa Francesco cerca di renderci sempre più attenti e disponibili: non rimanere rintanati nelle nostre comunità, che possono trasformarsi in sinagoghe abitate dai demoni del narcisismo e dell’autocompiacimento, dell’accomodamento sulla poltrona del proprio prestigio e del proprio ruolo, della difesa delle proprie posizioni e della chiusura al nuovo o alle necessità degli altri… Andare altrove, non dove spingono le mode del momento o per la soddisfazione di un capriccio, ma la dove lo Spirito vuole condurci, pronti a uscire da noi stessi e pienamente disponibili secondo le nostre potenzialità a offrire quello che può essere di utilità al bene di tutti.
Se la vita è un soffio, come dice Giobbe e come potremmo concludere anche noi per la consapevolezza della nostra precarietà, forte come non mai in questo tempo di pandemia, è anche vero che se ci chiudessimo in noi stessi senza aprirci al soffio dello Spirito essa si trasformerebbe in un vero e proprio guaio, quello, come dice Paolo, di non essere partecipi del Vangelo, cioè di quella gioia immensa che riempie il cuore quando ci si spende per il bene degli altri.
Buona settimana a tutti, fra’ Mario.