“VIALE DEL TRAMONTO” O “SENTIERO DELL’ALBA” ? (18/05/2020: Festa di San Felice da Cantalice)
Carissimi fratelli e sorelle,
poter riprendere la celebrazione dell’Eucaristia fisicamente insieme nel giorno della festa di San Felice è soltanto una singolare coincidenza, però non può non essere un ulteriore motivo di gioia per noi che, tra i tanti orientamenti che guidano la vita di ciascuno, abbiamo anche quello di poterci ispirare al nostro Santo Patrono.
Durante la quarantena si sono interrotte tutte le nostre attività, ma non quella fondamentale: abbiamo potuto mettere al centro la Parola di Dio, in tante forme: celebrazioni in streaming, incontri di formazione su diverse piattaforme, riflessioni ed esperienze condivise sui social… Adesso è il momento della ripartenza, certamente a piccoli passi, ma si riparte… e proprio questi primi passi sono determinanti nello scegliere dove indirizzare il nostro cammino nei giorni che verranno e che saranno certamente diversi da quelli precedenti la pandemia, anche se non ce ne rendiamo ancora pienamente conto.
Una settimana fa il Cardinale Vicario, Don Angelo, ha indirizzato ai sacerdoti e ai diaconi una lettera per farci una proposta impegnativa, a partire dalle parole di Papa Francesco del 27 marzo “… è il tempo di scegliere che cosa conta e che cosa passa, di separare ciò che è necessario da ciò che non lo è. E’ il tempo di reimpostare la rotta della vita verso di Te, Signore, e verso gli altri”. In questa lettera ci ha chiesto di vivere questi giorni come “il tempo della scelta. Non è affatto scontato che si debba ritornare a fare tutto ciò che facevamo prima. Dobbiamo sederci, stare in silenzio, ascoltare la Parola e fare discernimento… la Parola e la vita dei fratelli”.
In questi giorni noi frati cappuccini del Lazio, dell’Umbria e dell’Abruzzo che stiamo per dare vita ad un’unica realtà con le ridotte forze che abbiamo a disposizione, stiamo facendo lo stesso discernimento e ci siamo fatti aiutare da frà Raniero Cantalamessa nell’approfondire uno dei principi esposti nella Evangelii Gaudium: il tutto è superiore alla parte. Se si svuole che nasca qualcosa di veramente nuovo e che sia voluto da Dio per il “bene di tutti” occorre uscire da una visione di parte e dal privilegiare il proprio interesse.
A fare discernimento in questa liturgia in memoria di San Felice, in questo tempo di scelta in cui siamo chiamati ancora una volta ad uscire dal guscio delle nostre abitudini, sicurezze e assuefazioni, ci aiuta il finale del brano del vangelo di Luca appena proclamato: “cercate piuttosto il Regno di Dio, e queste cose (di che mangiare e bere, di che vestire, di che vivere) vi saranno date in aggiunta”. Siamo invitati, cioè, ad esprimere il nostro essere credenti riconoscendo che la nostra vita e tutta la realtà è sotto la signoria di Dio e quando lasciamo a Dio il ruolo di Signore, di guida, di fondamento della fratellanza e della giustizia, allora quell’augurio che ci siamo espressi all’inizio della quarantena “andrà tutto bene” non rimarrà soltanto una formula beneaugurante, ma coinvolgerà in maniera dirompente e totalizzante la vita di ciascuno di noi: cosa sono disposto ad investire, qual è la responsabilità che sono pronto ad assumermi, quali sono tutte le cose che posso lasciarmi dietro le spalle perché ciascuno abbia almeno un po’ di bene come risposta alle sue ansie, alle sue necessità, ai suoi desideri?
Cari fratelli e sorelle, pur vivendo in un’epoca di informe “gassosità” (come la chiama Papa Francesco) e di “passioni tristi” (che ci fanno preferire i tranquillanti alle prese di coscienza e a scelte decise e decisive) le provocazioni occorre raccoglierle perché solo così si deciderà se stiamo percorrendo il “viale del tramonto” o il “sentiero dell’alba”.
In questa festa di San Felice, giorno di ripartenza, cerchiamo allora di rintracciare, ricordandolo, alcuni suggerimenti integrativi a quelli che già stiamo seguendo nel cammino diocesano.
Ci hai dato in San Felice un “modello di semplicità evangelica”. Prima indicazione: essenzializzare, anche nel senso di semplificare… evitiamo di trasformare in un peso quanto dovrebbe invece rendere splendida la vita, liberiamoci dei pesi che abbiamo accumulato come Chiesa nei secoli, e di quelli nuovi che ci siamo imposti in questi ultimi anni… una volte per tutte, senza prove di forza e fanatismi, con semplicità, umiltà e pazienza, appunto (cfr prima lettura Col 3,12-17).
Conserviamo in Chiesa un Crocifisso proveniente dal Convento di Cittaducale che ci ricorda che San Felice passò le ore in preghiera davanti a Lui, come poi farà quasi tutte le notti della sua vita in altri luoghi, e dal Cristo imparò ad essere il servo di tutti. Ritorniamo, fratelli e sorelle, ad una preghiera che coinvolge la vita, uscendo da quella schizofrenia che è il sentirsi in pace con Dio, ma non riuscire mai a vivere fraternamente e “servilmente” con gli altri.
Uno dei segni più belli con cui ricordiamo san Felice, il ‘fornaio delle vie di Roma’, è la distribuzione del pane… Di quanto pane c’è bisogno in questi giorni… Ma ricordiamoci che non basta distribuire, il vero miracolo è condividere, è fondersi. In questa prima Eucaristia che celebriamo insieme ricordiamo allora che Cristo è realmente e pienamente presente nel pane e nel vino, mangiato e bevuto da noi, che così diveniamo un solo corpo con Lui e tra di noi.
Mentre il sole tramonta, torniamocene a casa, contenti, ma non del tutto… sarà di nuovo l’alba quando abbracciarci con sincerità e affetto, sarà il segno che il Vangelo ci ha preso dentro.
Fra’ Mario.

SPIRITUALI, CIOE’ CAPACI DI “OLTRE”-VI DOMENICA DOPO PASQUA
Carissimi fratelli e sorelle,
celebriamo oggi la sesta domenica del tempo di Pasqua, il trentaseiesimo giorno dalla domenica di Risurrezione, mentre ne mancano ancora 14 alla solennità della Pentecoste, il cinquantesimo giorno che chiude questo lungo ciclo liturgico.
Credo che l’attenzione che ci mettiamo di questi tempi nel contare i giorni trascorsi dall’inizio della pandemia e quanti ne mancano all’inizio di una nuova fase… debba stimolarci a recuperare il senso del tempo anche dal punto di vista della fede: viviamo sempre in mezzo a grandi cose già avvenute e a grandi cose che avvengono e che avverranno… ‘evoluzione’ è il termine tecnico che descrive questo processo, ‘promessa’ il termine biblico al quale noi credenti decidiamo di dare credito e che ci suggerisce gli atteggiamenti con cui starci dentro.
Purtroppo la maggior parte di noi non siamo stati formati a vivere questi 50 giorni della Pasqua come il tempo centrale dell’anno, da gustare, a partire dalla Risurrezione di Cristo, giorno per giorno in un crescendo di conoscenza, di meraviglia e desiderando il dono dello Spirito, nella Pentecoste, ultimo giorno dei cinquanta, ma in senso ampio giorno definitivo, dimensione definitiva di una vita non più soltanto espressione dell’evoluzione di ogni essere dell’universo, ma spazio abitato e orientato da Dio e dalle sue promesse.
Non essere stati formati significa, purtroppo, a volte anche rinunciare a lasciarci guidare giorno per giorno dalla Parola di Dio predisposta per alimentare il cammino spirituale quotidiano, così da farlo diventare una tappa sempre nuova e sorprendente di questo ‘crescendo’, per rifugiarci nella rassicurante ripetizione di devozioni che finiscono per sovrapporsi e sostituire il cammino liturgico, tipo mese di maggio o tridui e novene varie… o anche un certo modo (‘mondano’, direbbe Papa Francesco) di vivere questo tempo come mese delle prime comunioni, invitati quasi ogni domenica di qua e di la’, più per festeggiare i nostri bambini, che per incontrare realmente il Cristo risorto.
Non essere stati formati, in questi tempi di marginalizzazione della vita interiore, significa che nelle domeniche di maggio le chiese cominciano a svuotarsi anche perché il primo assaggio del mare, l’allegria delle sagre primaverili, le escursioni in mezzo alla natura che si risveglia, prendono il sopravvento sul desiderio di un incontro profondo con il Cristo e con la comunità (diciamoci la verità anche a motivo di un modo di celebrare formalistico e monotono).
In questa primavera senza prime comunioni, senza escursioni, e, al di fuori di ogni previsione, addirittura senza celebrazioni comunitarie, questa sesta domenica di Pasqua possiamo viverla, allora, come una occasione propizia per ridare a questi giorni il loro senso profondo: innamorarci sempre più di Gesù Cristo per essere pronti ad accogliere il dono da Lui promesso: il suo stesso Spirito, energia divina che può trasfigurare le nostre esistenze.
Al cuore della proclamazione delle Sacre Scritture c’è anche oggi un brano tratto dal capitolo 14 di Giovanni, da quella sezione letteraria che abbiamo chiamato discorso dell’addio e della continuità. A differenza del brano precedente dove l’intervento di Gesù era motivato dalle domande dei discepoli, questa volta sono le sue affermazioni che suscitano la domanda dell’Apostolo Giuda, non l’iscariota, “come è accaduto che devi manifestarti a noi e non al mondo?”. Quindi gli apostoli avevano ben compreso che le parole dette da Gesù erano rivolte in modo particolare a loro e non a quel ‘mondo’ di scribi e farisei e di pubblici funzionari che qualche giorno dopo ne avrebbero determinato la morte.
Parole rivolte da Gesù ‘fisicamente’ presente tra quei discepoli riuniti intorno a lui quella sera… da loro accolte con amarezza pensando al suo andarsene al Padre… rielaborate con gioia riuniti intorno a lui ‘spiritualmente’ presente dopo la risurrezione. ‘Fisicamente’, ossia una presenza circoscritta a luoghi e tempi precisi e fruibile solo dai presenti. ‘Spiritualmente’, ossia una presenza altrettanto reale ed efficace, che travalica i limiti di spazio e di tempo, e che diventa una sorgente di quella ‘vita altra’, offerta da Gesù già prima di e nel morire per noi e ora ancor di più nella sua condizione di risorto, sperimentabile e assimilabile da tutti coloro che vogliono incontrarlo.
Cosa chiede e cosa promette, dunque, Gesù ai discepoli, noi compresi ? Mi concentro su tre aspetti, che chiedo a ciascuno di ampliare con la riflessione personale.
“Se mi amate”, ossia “prima di tutto amatemi” e “amatemi più di tutti gli altri e di tutto il resto”. Può sembrare elementare come richiesta, ma ricordate come vacillò Pietro quando Gesù gli chiese personalmente e con insistenza: “Mi ami?”, “mi ami più degli altri?”. Oggi questa domanda è rivolta a me e a te, fratello e sorella, che facciamo un sacco di cose religiosamente valide (messe, rosari, digiuni e elemosine, attività benefiche e servizi ecclesiali …), ma che siamo chiamati a passare dal fare cose, a vivere una relazione, dall’essere praticanti ineccepibili all’essere profondamente innamorati e darne testimonianza, non nel senso di una prova di forza e di coerenza, ma di essere conquistati da Gesù, manifestazione suprema dell’amore del Padre, che fa di noi stessi una manifestazione di Lui, nell’amore vicendevole.
“Osserverete i miei comandamenti”, ossia “avrete a cuore”, “avrete nel cuore le mie parole”… nel cuore, davanti agli occhi, legate alle mani, sugli stipiti delle porte… ripetute di giorno e di notte, come già si chiedeva ad ogni Ebreo nel libro del Deuteronomio. Per capire la via di Gesù non bisogna fare viaggi in chissà quali luoghi misteriosi del mondo, consultare specialisti e frequentare biblioteche, essere dotati di particolari attitudini o competenze: occorre accogliere le sue parole e praticarle (“senza commenti accomodanti”, direbbe San Francesco). Eh si, cari fratelli e sorelle, proprio adesso che stiamo per tornare a celebrare insieme il culto, siamo chiamati a verificare quanto sia stato autentico il nostro percorso di discepoli, spogliati di tante forme di preghiera, ma proprio in questo invitati a tornare alla sorgente: le parole di Gesù che comunicano la vita che viene da Dio, che trasformano dal di dentro, che si traducono in stile.
“Pregherò il Padre di dare a voi un altro Paràclito, lo Spirito della verità, che sarà sempre con voi”. Si, agli Apostoli servì un altro “consolatore” per superare lo scandalo della morte di Gesù, alle prime chiese un altro “avvocato” per superare le persecuzioni… ad ogni generazione lo Spirito che porta alla verità, che scardina le presunte sicurezze acquisite e gli stili standardizzati, sia di vita che celebrativi, e col suo soffio spalanca le porte all’avvento nel presente del Dio, sempre oltre. Fratelli e sorelle, quanto avvertiamo il desiderio di essere cristiani nel modo richiesto da questi e dai prossimi giorni, e quindi in maniera diversa rispetto a ieri? Cosa ci lasciamo suggerire dallo Spirito?
I samaritani, ossia ebrei scismatici con poca simpatia per Gesù, avevano fatto dei passi da gigante nella fede: avevano accolto nella predicazione di Filippo la Parola di Dio ed erano stati battezzati nel nome di Gesù… forse potevano star bene già così… ma Pietro e Giovanni andarono per imporre le mani su di loro, alla maniera del Maestro, e fare loro dono di quello Spirito che ti porta sempre più in profondità e, al tempo stesso, sempre più in là di ciò che hai raggiunto.
Fra’ Mario

IL DOMANI DEI CREDENTI-V Domenica di Pasqua
Carissimi fratelli e sorelle,
il Vangelo di questa quinta domenica di Pasqua ci riporta all’interno della sala nella quale i discepoli hanno cenato con Gesù prima della morte, dove lo hanno incontrato risorto, da cui sono usciti, mossi dallo Spirito, per portare il Vangelo a tutti. Leggiamo, infatti, i versetti iniziali del capitolo 14 di Giovanni. Questo Evangelista, a differenza degli altri, ci racconta quella che chiamiamo l’ultima cena senza i particolari del rituale della cena pasquale ebraica, ma piuttosto con i tratti di una vera e propria cena di addio, avviata dal gesto iniziale della lavanda dei piedi (cap. 13) e che si conclude dopo un lungo discorso con una intensa preghiera per i discepoli (cap. 17).
Questa corposa sezione del Vangelo inizia così: “Prima della festa di Pasqua Gesù, sapendo che era venuta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò fino alla fine” (13,1). E termina con questa espressione: “E io ho fatto conoscere loro il tuo nome e lo farò conoscere, perché l'amore con il quale mi hai amato sia in essi e io in loro” (17,26).
Le parole di Gesù circa il suo passare al Padre e le consegne per i discepoli ci arrivano, organizzate appunto come in un lungo discorso, così come le prime comunità le hanno meditate e approfondite, in quel “sovrappiù di conoscenza” dovuto alla comunione profonda col Maestro (dimorare uno nell’altro) e alla crescente acquisizione di uno stile con Lui condiviso di dono e servizio per gli altri (il comandamento definitivo). Parole da accogliere, dunque, come le cose che stanno più a cuore a Gesù, e con l’atteggiamento del discepolo da lui amato di una confidente intimità (13,25).
Un Gesù, profondamento turbato, aveva annunciato il tradimento di Giuda e, dopo la sua uscita dalla sala, rivelerà ai discepoli di avere ancora poco tempo da stare con loro e di andare in un luogo dove loro non possono seguirlo. Per questo gli confida il senso profondo di ciò che lui sta vivendo (verità), la sua vita e la sua via: come io ho amato voi, così amatevi gli uni gli altri. Parole che risentiremo più avanti in una forma simile: “Come il Padre mi ha amato, così anch'io ho amato voi; dimorate nel mio amore” (15,9).
A questo punto tre interventi dei discepoli (noi oggi ne leggiamo solo due) : Pietro che vuole sapere del luogo, promettendo una fedeltà che non sarà capace di mantenere; Tommaso, che aveva dichiarato di voler andare a morire con Gesù, ma che non conosce la via per arrivarci; e Filippo cercatore sincero di Dio, di quel Dio che però non riesce a intravedere nel volto di quell’uomo che gli aveva appena lavato i piedi.
Un Gesù, non più turbato, invita i suoi stessi discepoli, dei quali conosce le debolezze, a non aver paura: il dono di una comunione piena con Dio (espressa con l’immagine della casa e le dimore, la casa è fatta per dimorarvi, e Dio e l’uomo sono casa pronta per la dimora dell’uno nell’altro), questo dono è alla loro portata, offerto dal maestro che dà la sua vita per loro. Credete in me! Ossia, accettare una volta per tutte e senza ripensamenti, che Gesù che muore sulla croce è la rivelazione più alta dell’amore del Padre, che in quel modo di amare fine alla fine c’è il senso più profondo dell’esistenza, è tracciato il cammino del credente di ogni tempo.
Veniamo a noi e alla quarantena di questi giorni. Forse anche noi come Pietro, Tommaso e Filippo, facciamo i conti con le nostre infedeltà, con il percorrere un cammino che non sempre coincide con quello del Maestro, religiosi abbastanza, ma privi di quella fede che sa farci amare al modo di Gesù…
Allora, chiediamoci: vogliamo al più presto tornare a incancrenirci nell’esprimere la nostra religiosità attraverso forme, che forse neanche Gesù ha mai immaginato che potessero esistere o essere autentiche manifestazioni di fede, o vogliamo compiere con il Maestro l’esodo verso l’amore pieno?
Questo è il domani dei credenti, non il cimitero: desiderare e provare a vivere l’amore senza misura, quello ‘proprio’ di Dio, che ci consente di fare quelle cose meravigliose, che Gesù stesso prevedeva addirittura più grandi di quelle fatte da lui.
Fra’ Mario

FUORI DAL RECINTO
Carissimi fratelli e sorelle,
da circa 60 anni in questa quarta domenica di Pasqua nella Chiesa Cattolica si celebra la giornata mondiale di preghiera per coloro che sono chiamati ad assumere il ministero di pastori, e nella Liturgia si proclama la parabola del Pastore bello (o buono, termini ai quali io annetto anche il valore di autentico) al capitolo 10 di Giovanni.
In tutti questi anni, tuttavia, si è passati da una concezione a ‘senso unico’ che faceva coincidere la “vocazione” con la “chiamata al sacerdozio”, o, tuttalpiù, alla vita religiosa, con il ‘sacerdote’ unico protagonista della missione della Chiesa (certamente una missione intesa prevalentemente come amministrazione di sacramenti), ad una visione sempre più ampia: ogni battezzato è chiamato a diventare discepolo e partecipare in modo attivo alla missione della Chiesa nel mondo (EG 120).
Occorre, dunque, da subito abbandonare certe affermazioni tipiche del passato e alquanto retoriche, come: Gesù è il Pastore bello da seguire, un pastore per essere buono deve essere come Gesù, una pecora per essere buona deve obbedire al pastore… per riflettere su cosa volesse effettivamente comunicarci Gesù riguardo alla relazione tra Dio e coloro che Egli cerca e che a loro volta lo cercano, ricorrendo all’uso di una immagine tipica del suo ambiente e tanto diffusa nelle Scritture: il pastore e il gregge.
Dopo la predicazione in Galilea culminata con il discorso del pane di vita (cap. 6), Giovanni ci racconta un pellegrinaggio di Gesù al Tempio di Gerusalemme per la festa della capanne, durante il quale il contrasto con sacerdoti, scribi e farisei si fa talmente acceso che essi provano a lapidarlo e Gesù è costretto a fuggire dal Tempio (Gv 8,59). Mentre si allontana incontra un cieco dalla nascita e lo guarisce. Riincontrandolo, dopo che anche lui era stato cacciato dal tempio, Gesù definirà i farisei come guide ceche, abitate dal peccato di non saper riconoscere in Gesù l’inviato del Padre.
Credo che anche noi, come coloro che erano presenti, ci saremmo chiesti: ma a chi bisogna dar retta di questi due? Agli scribi e farisei arroccati all’interno del recinto sacro del Tempio, guardiani inflessibili della legge e delle sue tradizioni, o all’espulso dal recinto che chiede alle persone di uscirne con lui ?
Un bel dilemma, diciamo oggi, per i cercatori di Dio sempre desiderosi di intraprendere i percorsi liberanti della fede e, tuttavia, sempre nel pericolo di rimanere chiusi nei recinti sacri delle religioni. Gesù stesso offre una risposta raccontando una parabola enigmatica, da decifrare immagine per immagine, assumendosi la responsabilità di decidere.
Al solito, mi assumo la responsabilità di fermarmi ad alcuni aspetti, a ciascuno poi il compito di approfondire e condividere i tanti altri.
Un pastore autentico passa dalla porta, in Ap 3,20 si dirà: bussa alla porta, e lascia liberi di aprire, a differenza dei ladri e briganti che stanno dentro al recinto illegittimamente e spadroneggiano sulle pecore…
Un pastore autentico non si limita a fare il guardiano e a tenere le pecore chiuse dentro il recinto, ma fa vivere alle pecore l’esperienza dell’esodo e della liberazione, attraverso percorsi fraterni (conoscersi per nome e riconoscersi dalla voce, non come tra estranei).
Un pastore autentico cammina davanti, ci mette le faccia e il cuore, si alza fino a donare la vita sulla croce, si abbassa fino a lavare i piedi e chiede: capite quello che ho fatto per voi? Adesso fatelo anche voi gli uni per gli altri. E le pecore lo seguono.
Un pastore autentico è una porta sempre aperta: per trovare in lui rifugio e ristoro, non per rimanere li a crogiolarsi, ma sempre per essere sospinti fuori verso nuovi pascoli.
Un pastore autentico appassiona, coinvolge, comunica vita, immette energia, fa sognare e desiderare quella dimensione propria di Dio, senza ambire alla quale spesso si finisce per rimanere soltanto dei mediocri, se non dei delusi perennemente insoddisfatti, che è la pienezza, l’abbondanza, che uno pregusta e vive già in quelle situazione alle quali arriva con un cuore libero e ben orientato dalle parole del Maestro.
I seguaci più stretti di Gesù furono letteralmente conquistati dagli insegnamenti del loro pastore estromesso dal recinto, e dopo il suo esodo pasquale, quando il suo Spirito frantumò i loro dubbi e paure, saltarono a loro volta tutti i recinti del cenacolo, del tempio, della giudea e del giudaismo, per parteciparli a tutti gli uomini… Gli Apostoli!
I loro successori smisero di chiamarsi così, e presero il nome dei funzionari che nel mondo greco svolgevano il ruolo di ispettori, controllori, guardiani delle persone a loro soggette: gli “episcopi”.
Evitando polemiche sterili e desuete verso istituzioni o persone con ruoli di responsabilità, potremmo leggere questi mesi della pandemia come una porta aperta per uscire dai recinti degli usi e costumi tradizionali, o anche di abitudini recenti, e andare verso i nuovi pascoli che il Dio Pastore prepara per coloro che lo ascoltano e seguono?
Fra’ Mario
Cari fratelli e sorelle, a tutti voi che leggerete o ascolterete questa riflessione, ancora una volta indico tre domande nella speranza che, prima o poi, si abbia la possibilità e la voglia di scambiarsi le proprie idee per la crescita della nostra comunità.
- Quali prospettive apre nella tua vita una fede concepita come un uscire dietro a Gesù da vecchi e nuovi recinti, interiori o istituzionali?
- Come valuti il confronto in atto in questi giorni tra CEI e Stato, e delle varie anime cattoliche tra di loro, per una ripresa celere delle celebrazioni liturgiche all’interno delle chiese, alla luce della parabola del pastore, raccontata da Gesù fuori del recinto del Tempio?
- Ai nostri giorni uno dei più bei frutti del Concilio: la partecipazione dei laici alla missione della Chiesa, rischia di rimanere ingabbiato in recinti costituiti da realtà ecclesiali ormai fossilizzatesi nell’unicità della loro esperienza e nella ripetitività di parole e gesti eseguiti a comando. Cosa rimarrà al termine della stagione dei movimenti e quale Chiesa susciterà lo Spirito per il mondo di domani?

UNA CHIESA STILE “EMMAUS”
Carissimi fratelli e sorelle,
al centro della Liturgia della Parola di questa terza domenica di Pasqua c’è uno dei racconti più belli del Vangelo di Luca, una specie di parabola, consentitemi di chiamarla così visto che siamo invitati a immedesimarci nei protagonisti e a confrontarci con le loro reazioni: l’esperienza del Risorto dei discepoli in cammino verso Emmaus.
Quando il Vangelo di Luca è stato redatto in maniera definitiva erano passati 40/50 anni dalla Pasqua di Gesù, gli Apostoli erano già quasi del tutto scomparsi e le comunità da loro fondate erano guidate dai loro successori e composte da cristiani che neanche li avevano conosciuti. Come mantenere, allora, un contatto vivo con il Signore dopo la scomparsa dei testimoni diretti? Come il Signore continuava a farsi presente in mezzo ai credenti? Quali cambi di passo in comunità che avevano sperato nel ritorno imminente del Signore e che ora, dopo la delusione, in mezzo a tante difficoltà, diventavano consapevoli di dover assicurare il suo costante accompagnamento alle nuove generazioni di credenti?
Per offrire delle risposte a questi problemi vitali Luca crea questo bellissimo racconto in cui convergono il senso della missione di Gesù e le prospettive di una chiesa, chiamata a continuarla nella storia.
Vorrei, come al solito, sottolineare alcuni elementi che mi sembrano di particolare attualità.
Mentre Cleopa e un suo amico fanno i primi passi ‘in uscita’ da Gerusalemme (cominciando da… dirà il Vangelo qualche versetto dopo) conversano e discutono. A questa conversazione si unisce una terza persona che ascolta i loro sfoghi e raccoglie la loro amarezza per il fallimento del profeta Gesù, la cui tomba quella mattina è stata trovata inspiegabilmente vuota da alcune donne e da Pietro, che Lui però non lo hanno (ri)visto. Ai due delusi il nuovo compagno di viaggio infiamma il cuore spiegando le Sacre Scritture.
Ed ecco la prima grande indicazione: il Risorto è autenticamente presente in mezzo ad una comunità che ascolta le scritture, e che dialoga e anche discute sul senso di esse e la loro attualizzazione.
Che fatica che stiamo facendo, fratelli e sorelle, per essere una comunità che mette al centro la Parola, che si riunisce per ascoltarla e interrogarla, per ricevere spiegazioni e per condividere risonanze interiori (e non si limita a valutare la qualità di un’omelia – il cui gradimento varia in base alla corrispondenza ai propri gusti - o verificarne la durata). Che disastro una Chiesa dove a partire magari proprio dai suoi ministri specifici (presbiteri, diaconi, lettori, catechisti…) c’è un vuoto di Parola ascoltata, studiata, discussa, applicata, vissuta sempre più. Che disastro una comunità di “incompetenti” del Vangelo, privi cioè di quel dialogo con il Risorto attraverso le Scritture e di quel confronto con i fratelli, senza il quale la vita nuova nella fede rischia di ridursi a sentimentalismo, intimismo, emozionalismo… determinando in qualche modo già così la fine del ‘credente comunitario’.
Per la piacevolezza e la qualità della conversazione Cleopa e il suo amico invitano, data la prossimità della notte, il passante misterioso a rimanere con loro e mentre cenano insieme un gesto particolare rivela che davvero il Risorto è venuto tra loro: il pane spezzato, laddove spezzato significa anche condiviso e mangiato: prese il pane, disse la benedizione, lo spezzò e lo diede loro (che, come nel racconto dell’ultima cena, sottintende il mangiare). E dopo aver mangiato si “aprirono loro gli occhi”…
E quanta fatica ancora stiamo facendo, fratelli e sorelle, per essere una comunità che mette al centro il pane mangiato insieme, il pane di Dio e pane della fraternità, spezzato e condiviso (quanto sono lontane le precisissime ostie preconfezionate dal poter essere segno di tutto ciò e non solo della fede nella presenza di Dio). Lascio la parola ad un grande teologo che già negli anni ’60 scriveva: “Se il Signore lega la sua presenza alla figura del pane, il senso di un simile procedimento è assolutamente chiaro: anche questo pane santo in primo luogo non è fatto per essere guardato, ma per essere mangiato. Vuol dire che Egli è restato non per essere adorato, ma soprattutto per essere ricevuto. Ancor più dei tabernacoli di pietra, a lui interessano i tabernacoli viventi, gli interessa avere uomini che siano colmi del suo Spirito e che siano pronti a rendere presente lo Spirito e la realtà di Gesù Cristo in questo mondo” (Joseph Ratzinger).
E, in conclusione, vorrei rileggere quel rimettersi in cammino, per andare a incontrare gli Undici e essere in comunione con loro nell’annunciare il Risorto, all’interno del nostro percorso di maturazione missionaria e di presenza significativa nel mondo. La Parola accolta con passione e il pane di Dio e della fraternità mangiato insieme mettono le ali ai piedi.
Forse proprio in questi giorni ci stiamo rendendo conto che ambito della fede non è fermare o scansare una pandemia (come certe benedizioni dagli aerei o dati tetti potrebbero dare a intendere, unitamente a certe suppliche), ma creare in nome del Dio, che per noi si è fatto pane da mangiare, fraternità tra gli uomini: sperimentando come nel banchetto eucaristico l’assimilazione a Cristo fa di noi un solo corpo e ci fa correre là dove più forti sono le necessità e le sofferenze, là dove più evidenti sono ingiustizie e disuguaglianze.
Fra’ Mario
Come domenica scorsa vi lascio tre domande che, spero, vogliate porvi e, magari, condividere le risposte.
- Qualcuno di noi ricorda quando diversi anni fa le prime domande che un confessore ti rivolgeva erano: da quanto tempo non ti confessi? Da quanto tempo non vai a messa? Hai commesso atti impuri?... E se oggi ti chiedessero invece: quanto tempo dedichi all’ascolto, allo studio, alla meditazione condivisa delle Sacre Scritture?
- Se una persona arrivando tardi alla Messa chiedesse a te: è ancora valida la mia partecipazione alla messa ? In che modo l’accompagneresti a una concezione/esperienza dell’Eucaristia stile Emmaus?
- “Per questo il tavolo dell’altare, la mensa, è superiore al tabernacolo, perché Cristo fa appello a noi a essere suoi tabernacoli in questo mondo, ad avere il coraggio del suo Spirito, dello Spirito di verità, di rettitudine, di giustizia e di bontà” (Joseph Ratzinger, articolo già citato). Come le nostre Eucaristie ti aiutano a vivere questo legame tra mensa e mondo?