Quelli che ci mettono il cuore
Carissimi fratelli e sorelle,
chi di noi non ha vissuto nella solitudine momenti paragonabili a notti oscure, mari agitati, venti contrari, e popolati da fantasmi e sogni impossibili?
E quante volte anche le esperienze comunitarie e la vita sociale in genere sono segnate dalle stesse caratteristiche? Basti pensare, per esempio, in quante occasioni ci ripetiamo in questo tempo di pandemia che andrà tutto bene, che ne usciremo insieme, che siamo tutti sulla stessa barca… anche se poi abbiamo l’impressione che sia una barca che fa acqua da tutte le parti e che non sarà facile per infinite contrarietà guadagnare la riva della soluzione dei problemi e della serenità.
Il brano del Vangelo di questa diciannovesima domenica del tempo ordinario ci racconta di momenti così vissuti anche dagli intimi di Gesù, gli Apostoli, in viaggio su una barca dalla direzione incerta e spesso in procinto di affondare, e ostacolati e perseguitati da ogni parte. Non dimentichiamo che quando il Vangelo attribuito a Matteo viene redatto già alcuni Apostoli erano stati martirizzati: Giacomo, fratello di Giovanni, Andrea e suo fratello Pietro, lo stesso Paolo, e che anche altri di loro lo saranno, secondo le tradizioni, in quel periodo; e che la comunità giudaica e quella giudeo-cristiana sono ancora sotto shock per la distruzione di Gerusalemme con cui i romani misero fine alla prima rivolta giudaica.
Su chi è cosa contare quando tutto va al contrario? Se i Vangeli fossero semplicemente un racconto dei fatti straordinari della vita di un grande uomo di nome Gesù verrebbe da rispondere spontaneamente: su i suoi poteri eccezionali. Ma i Vangeli, pur offerti nel genere letterario del racconto, sono una testimonianza di quello che Gesù è stato e ha vissuto, di quello che gli Apostoli hanno condiviso con Lui, hanno compreso sempre più profondamente di Lui e poi hanno vissuto in suo nome: è il Figlio di Dio che ha dato la vita per noi (come ci ha manifestato il segno precedente della condivisione dei pani), di Lui ci si può fidare, a Lui ci si può affidare, con Lui si può spendere la propria vita per gli altri.
Sono molti gli indizi che il brano di oggi ci offre per comprendere quale straordinario compagno di viaggio ci abbia regalato Dio in Gesù, il Crocifisso Risorto (Colui che sta sul monte, da identificare non con una delle tante colline della Galilea o della Giudea, ma come il luogo della presenza di Dio, della Trasfigurazione e delle Beatitudini), il vincitore del male e della morte (cammina sul lago oscuro simbolo del male e silenzia i venti contrari), che ci introduce nel nuovo giorno (viene incontro all’alba e sale sulla barca in mezzo ai suoi che l’avevano scambiato per un fantasma, elementi che ritroviamo nei racconti delle apparizioni del risorto), che comunica la vita che viene da Dio (prende per mano e rialza, Pietro come ogni battezzato).
“Davvero Tu sei il Figlio di Dio” è la professione di fede che dal profondo del cuore affiora sulle labbra di chi non solo crede alla risurrezione di Gesù, ma può anche affermare, tirato fuori dalle acque del male, e io sono risorto con Lui. Perché proprio questo è la fede: lasciarsi prendere per mano da Dio per essere condotti a una vita nuova, senza nostalgie per quello che si lascia indietro, senza paura di ciò a cui si va incontro, senza opporre resistenze, certi che ogni giorno, anche quello più oscuro, anche quello dell’apparente fallimento, anche quello del dolore, nasconda sempre l’opportunità di un ulteriore passo avanti, di una crescita in umanità, di un anticipo di pienezza futura.
Ogni persona che vuole diventare credente, e ogni credente che vuole crescere, è chiamato allora a meditare con attenzione alcuni inviti di Gesù presenti in questo brano.
“Coraggio, sono io, non abbiate paura”.
“Coraggio” alla lettera vuol dire avere cuore, metterci il cuore, metterci la parte più importante di sé senza la quale non si è mai in grado di fare una scelta, di fidarsi di qualcuno… Leggevo tempo fa una frase che mi sembra esprimere bene il senso di questo invito: “La vita è tutta una scelta fra paura e amore. Il coraggio aiuta a scegliere bene”.
“Sono io”! Questo è il modo in cui gli ebrei hanno imparato a chiamare Dio percependolo come compagno di viaggio nel cammino del deserto: “Io sono” sta a dire “sono con te”… E così Matteo ci ha presentato Gesù fin dall’inizio: l’Emmanuele, il Dio con noi; e così si conclude il suo Vangelo, con la promessa di Gesù: “Io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo”. Anche in mezzo al mare in tempesta e con il vento contrario il credente è uno che sa percepire questa presenza, sa fidarsi, sa di non essere mai uno abbandonato al proprio destino o privato di un accompagnamento amorevole, o escluso da quel finale in cui tutto sarà capovolto e tutti saranno colmati di gioia e di pace.
“Non abbiate paura”. Quante volte nelle Scritture Sacre viene rivolta agli uomini questa espressione straordinaria e quante volte l’ha ripetuta anche Gesù. La paura, forse l’emozione più provata dagli uomini: di fronte all’incerto, di fronte al pericolo, di fronte al dolore, di fronte alla morte… siamo pieni di paure… paura di non essere all’altezza, di sbagliare, di amare fino in fondo, persino paura di Dio… la paura è l’esatto contrario della fede, come possiamo vedere dall’esperienza dello stesso Pietro in quella notte.
Anche qui il racconto ha qualcosa di particolare: Pietro anziché fidarsi del maestro lo mette alla prova con le stessa parole usate dal tentatore nel deserto “se sei tu”… e pretende un segno straordinario: poter camminare verso di Lui sulle acque. Gesù glielo concede, ma qualcosa non va: Pietro non ha dentro le energie della risurrezione, è ancora un figlio della paura e comincia ad andare a fondo… ma proprio in questo momento capisce chi è l’unico che può salvarlo e lo invoca: salvami! Gesù lo prende per mano e lo trae fuori dall’acqua (lo risuscita) rimproverandolo “uomo di poca fede, perché hai dubitato?”, e lo riporta sulla barca, laddove il cessare del vento manifesta la presenza rigenerante di Dio.
Il profeta Elia sul monte Carmelo aveva invocato e ottenuto la discesa del fuoco di Dio sulle proprie offerte… preso dall’impeto aizzò la folla e fece uccidere 400 sacerdoti di Baal… costretto a fuggire si ritirò in un luogo deserto ad aspettare la morte… “non sono migliore dei miei padri” diceva a se stesso ripensando a quella strage. Ma Dio torna a visitarlo (come leggiamo nella prima lettura) e si fa presente non nel vento impetuoso, non nel terremoto devastante, non nel fuoco possente, ma in una brezza leggera… Dio è così, e chi crede in lui non deve desiderare superpoteri, non deve esibirsi in dimostrazioni di bravura, non deve avere la presunzione di fare tutto da solo… deve solo lasciarsi avvolgere dalla brezza leggera di una stretta di mano che strappa alle onde impetuose e fa cessare i venti contrari.
Ho lasciato in ultimo la prima richiesta di Gesù agli apostoli: traversare il lago di notte per andare all’altra riva, la riva est, la riva dei pagani… gli apostoli erano contrari primo per la pericolosità di avventurarsi sul lago di notte e secondo per le troppe incognite che si celavano in quell’andare dai pagani… ma Gesù li “costrinse” a partire. Ecco, mi sembra che anche oggi la paura di partire e di affrontare il nuovo, di muoversi in un terreno che non è familiare, di aprirsi alle sorprese di un viaggio diverso dal solito caratterizzi l’atteggiamento delle nostre comunità, troppo arroccate sulle sicurezze acquisite in secoli e secoli di percorsi comodi e tranquilli e poco propense a rimettersi in discussione di fronte alle sfide del presente. Come ci costringerà il Signore a ripartire? Non c’è fretta di rispondere, ma intanto è urgente abbandonare paure e senso di frustrazione e tornare ad essere persone che si fidano ciecamente del loro Signore, che si lasciano prendere per mano e condurre lontano, che ci mettono il cuore nelle cose che fanno.
Buona domenica, fra’ Mario.
Il primato della compassione e della condivisione
Carissimi fratelli e sorelle,
ogni domenica ci raduniamo insieme per ascoltare e meditare le Sacre Scritture e rivivere la Pasqua di Gesù, ripetendo quello che Lui e gli Apostoli hanno fatto durante l’ultima cena.
Seppure nella Messa possano essere usate preghiere eucaristiche diverse per ricordare e rivivere la cena del Signore, ciascuno di noi conserva nitide nella propria memoria alcune espressioni: prese il pane, ti rese grazie con la preghiera di benedizione, lo spezzò, lo diede ai suoi discepoli… e allo stesso modo prese il calice, ti rese grazie con la preghiera di benedizione, lo diede ai discepoli…
Queste parole, fin dalle comunità apostoliche permettono ai cristiani di celebrare la presenza di Cristo e di accogliere nei segni del pane e del vino il dono della sua vita, per essere con Lui e con i commensali un solo corpo, per vivere in mezzo a tutti gli uomini con uno spirito di comunione, servizio e fratellanza. Parole, dunque, che esprimono l’identità e la missione di Gesù (non c’è amore più grande che dare la propria vita) e allo stesso modo quelle della comunità dei discepoli.
Queste stesse parole le ritroviamo nel brano di Vangelo di oggi che ci fa soffermare sull’unico racconto di miracolo presente in tutti e quattro i vangeli, anzi in Matteo e Marco ben due volte: la moltiplicazione dei pani e dei pesci. Su quelle collinette nei pressi di Cafarnao in un tardo pomeriggio di primavera per le oltre cinquemila persone che da ore stavano li ad ascoltarlo Gesù prese i pani, li benedisse, li spezzò e li diede ai discepoli ed essi a loro volta alla folla. Quello che le prime generazioni cristiane vivevano come memoriale del Signore e avevano imparato ad esprimere come loro segno distintivo: la frazione/condivisione del pane, sono capaci di coglierlo anche nell’attività di Gesù precedente la Pasqua: Egli è davvero il grande profeta atteso, che viene da Dio, e si prende cura dell’umanità, comunica le parole che fanno meravigliosa l’esistenza e offre e pane per saziare la fame, così come Dio aveva donato la manna al popolo nel deserto, e tutto se stesso per i necessitanti di accoglienza, comprensione, conforto e sostegno.
Dunque, quando celebriamo la cena del Signore non ricordiamo soltanto quello che Lui fece a mensa quella sera, ma ricordiamo Lui così com’era, la sua fede, la sua umanità, la grandezza del suo amore che rendeva possibile esperienze di comunione e di condivisione, di riconciliazione e di fratellanza impensabili a prima vista (vedi la difficoltà degli apostoli di fronte all’invito di prendersi cura della fame di tutta quella gente).
A proposito di umanità è molto significativo notare che il brano di oggi si apre con Gesù che, appena informato della morte del suo amico e grande uomo di fede Giovanni il Battista, decide di interrompere la sua predicazione e ritirarsi in un luogo deserto per trovare conforto nella preghiera, per ricordare i momenti più belli vissuti con lui, per fare discernimento nel silenzio sull’eredità spirituale da raccogliere e portare avanti. E’ impossibile però cercare un luogo isolato costeggiando con la barca le rive del lago: un gran numero di persone segue il suo itinerario e lo attende allo sbarco: Gesù non è infastidito ma prova compassione per loro, fa sue le loro sofferenze e guarisce molti malati. Il “primato della compassione”, anche sul dolore personale, è questo che rende possibile ogni miracolo e l’essere così vicini alle persone da saper trovare il modo migliore di accompagnare e di affrontare insieme ogni difficoltà.
Sul far della sera gli apostoli fanno notare a Gesù un altro problema: quella gente è stanca e ha fame. Ma non si lasciano muovere dalla compassione, forse dal buon senso, e suggeriscono al Maestro di congedarli e che ognuno si arrangi da solo. Ma Gesù chiede altro ai suoi discepoli: per essere in comunione con lui devono essere capaci di fidarsi di lui, di provare la stessa compassione e rispondere in prima persona alle necessità della folla: voi stessi date loro da mangiare. Ci si potrebbe provare ma la risorsa a loro disposizione, cinque pani e due pesci, viene considerata inadeguata. Allora Gesù prende l’iniziativa: ordina di far sdraiare la gente sull’erba, benedice i pani e i pesci, riconosce in quella piccola risorsa il dono di Dio per tutta quella gente, spezza i pani, li da ai discepoli ed essi li distribuiscono alla folla… e c’è pane e pesce per tutti, in abbondanza, come in tutti i banchetti allestiti da Dio, e ne avanzano dodici ceste, come a dire che al popolo di Dio (le dodici tribù d’Israele come i dodici apostoli, la chiesa) non mancherà mai pane per le necessità di ciascuno, dove c’è compassione e condivisione.
Parola e opera di Gesù, di colui che non ha mai rimandato a casa nessuno a mani vuote, di colui che si è fatto pane spezzato e condiviso, di colui che rimane per sempre in mezzo a noi nei segni del pane e del vino a donare vita, la sua vita, perché anche noi ci doniamo ai fratelli.
Ai nostri giorni, le nostre celebrazioni eucaristiche sembrano aver perso la capacità di trasmettere questi elementi fondamentali del ‘primato della compassione’ e del ‘desiderio di condividere’ la propria vita con gli altri. Abbiamo bisogno anche noi, come il popolo d’Israele deportato a Babilonia e assuefattosi allo stile di vita babilonese, di essere richiamati ad aver fame e sete di Dio, a lasciarci saziare da Lui, lasciarci orientare dalle sue parole e assimilare la vita che Cristo ci comunica donandoci se stesso, senza stare sempre a rincorrere le illusorie promesse delle mode di turno, che appagano per un momento, ma ci lasciano vuoti di umanità, compassione e misericordia.
E abbiamo bisogno, inoltre, di uscire dalla stanca e monotona ripetizione di quanto abbiamo fatto fino ad oggi. Il brano del Vangelo si conclude con l’annotazione: quelli che avevano mangiato erano circa cinquemila uomini, senza contare le donne e i bambini. Un modo di contare tipico del culto sinagogale che non poteva avere inizio senza la presenza di dieci uomini, senza contare le donne e i bambini. Il vero culto si era spostato dalla sinagoga su quel prato, un culto fatto non di rituali ma di compassione e condivisione, un culto che si ripete significativamente ovunque esse hanno davvero il primato. Tutto il resto, la monumentalità dei luoghi delle nostre celebrazioni, la ricchezza di arredi e abbigliamento liturgici, la complessità di un certo formulario e la vacuità della gestualità, corrono il rischio di separarci dall’amore di Cristo, piuttosto che farcelo vivere in quella forma piena che il donarci gli uni agli altri.
Buona domenica. Fra’ Mario.
E’ ORA DI TIRARE FUORI IL MEGLIO DI NOI
Carissimi fratelli e sorelle,
in questa diciassettesima domenica del tempo ordinario concludiamo la lettura del capitolo 13 di Matteo con le ultime tre parabole sul Regno dei cieli: il tesoro nascosto nel campo, la perla più preziosa e la rete che raccoglie ogni genere di pesci.
E siamo così arrivati a sette, un numero che nel mondo ebraico ha il valore di una realtà perfetta e compiuta, e di cui Matteo si serve per presentarci questa sua raccolta come un qualcosa che può farci intuire l’essenziale del Regno dei cieli e, soprattutto, farci comprendere bene ciò che stava realmente a cuore a Gesù. Per Lui annunciare il Regno dei cieli non significava parlare di un mondo ultraterreno da raggiungere alla fine della vita, ma che questo stesso mondo può essere pienamente migliorato, se non trasformato radicalmente, se ci si mette sotto la signoria di Dio e si accolgono i suoi progetti.
In queste ultime tre parabole, a ben vedere, pur se il protagonista rimane il Regno, presentato con le immagini del tesoro, della perla e della rete, tuttavia entrano in gioco dei co-protagonisti che devono attivarsi per farne parte: trovare, cercare, lasciarsi conquistare, dare tutto… Quindi il Regno ha una sua vitalità e una sua forza, fa lievitare e crescere, ma ha bisogno di essere accolto per fruttificare, come abbiamo visto nella prima parabola circa i diversi terreni, di essere al primo posto nella lista dei desideri, di occupare il centro del cuore. Quindi con queste parabole Gesù oltre a comunicarci un’idea ‘migliore’ di Dio e del suo Regno, rispetto ai maestri del suo tempo, ci consegna anche un modello diverso di fede, non più basata sull’obbedienza alle regole e la ripetizione ossessiva di atti di culto, ma caratterizzata dal desiderio, dalla ricerca di un di più, dalla gioia del trovare e del mettere in gioco tutto se stessi.
La prima lettura ci presenta Salomone come uno che ha vissuto così la fede. Quando Dio si rende pronto ad esaudire ogni suo desiderio il giovane re avrebbe potuto chiedere potenza, ricchezza, gloria… ma perché sia Dio a regnare attraverso di lui chiede in dono un cuore docile e capacità di discernimento. Dio ne rimane quasi sorpreso che già fosse in grado di chiedere l’essenziale e glielo concede. Oggi ascoltando le parole di Gesù dovremmo essere capaci anche noi di quel discernimento che non ti fa mai perdere di vista l’essenziale e lo stile di vita proprio dei docili di cuore, dei poveri in spirito.
Cosa, dunque, è necessario per diventare figli del regno? Le prime due parabole del tesoro nascosto e della perla ci dicono che bisogna essere pronti a mettere in gioco tutto pur di avere ciò che si desidera fortemente e che vale più di tutto il resto. Il primo passo da fare non è rinunciare a qualcosa ma mettere bene a fuoco quello che vale di più. Il contadino una volta trovato il tesoro, pieno di gioia per la sua scoperta, si muove per fare il passo decisivo: vendere tutto per acquistare il campo dove esso è nascosto. Allo stesso modo il mercante di perle trovata quella che vale più di tutte compie lo stesso passo. E’ da sottolineare che entrambi si muovono non con la tristezza di dover rinunciare a qualcosa, ma con la gioia e l’entusiasmo di aver trovato ciò che per loro vale più di quanto posseduto fino ad allora.
Quando mi trovavo a Siena per gli studi liceali, sulla strada del convento, sulla colonna portante del cancello di un villino c’era una lastra di marmo con su inciso: “Non vale la pena di vivere se qualcosa non vale più della vita”. E’ una frase che mi è rimasta sempre nella mente e che bene esprime il senso di queste due parabole: la bellezza e il valore del regno di Dio e l’entusiasmo nel desiderarlo, cercarlo, contribuire a costruirlo, con docilità e apertura di cuore, con saggezza e prontezza, con gioia grande e profonda convinzione. Le grandi cose di Dio, sia che ti ci imbatti all’improvviso, sia che le ricerchi da tempo, sono in grado di cambiare radicalmente e definitivamente l’esistenza, di darle un senso pieno, e di mettere in grado le persone che ne fanno esperienza di contribuire al miglioramento del mondo che le circonda, anche in mezzo a tanto grigiore e mediocrità.
A farci evitare il rischio della megalomania e della presunzione, così come del disfattismo e della depressione, ci pensa la terza parabola. Quante volte il Vangelo ci racconta l’attività dei pescatori del mare di Galilea, di quelli stessi che diverranno discepoli di Gesù e da lui saranno trasformati in pescatori di uomini. Quante notti di fatica e di paura, quante battute di pesca senza risultati apprezzabili? Eppure Gesù invita a riprendere il largo e gettare di nuovo la rete… Si perché il Regno di Dio è come una rete che, aldilà di inevitabili insuccessi, è destinata ad essere tirata a riva carica di ogni genere di pesci, alcuni marci e da gettare via, ma la maggior parte buoni e da riporre nelle ceste per la vendita al mercato. Anche qui l’accostamento dell’attività di cernita del pesce buono con il giudizio finale (riflesso dell’attesa in quel particolare momento storico di persecuzione e violenza di un intervento decisivo di Dio) ha la funzione di invito alla pazienza e alla lungimiranza: un ottimo risultato sarà comunque inevitabile. Via la tentazione di essere coloro che hanno in mano le redini della storia, cosa che compete solo a Dio, e darsi da fare perché la rete porti a riva sempre tanti buoni pesci.
Che cosa abbiamo capito di tutte queste parabole? Che cosa ci rimane nel cuore? Gesù dice che chi le capisce è come uno scriba (persona a lui notoriamente ostile) che diviene discepolo del Regno (aderisce all’insegnamento di Gesù), capace di tirare fuori dal suo tesoro cose antiche e cose nuove, meglio sarebbe dire, migliori. Gli scribi, dotti conoscitori e interpreti della legge, avevano il compito di custodire e tramandare le scritture antiche e gli insegnamenti dei maestri, e di renderli il più possibile intellegibili per il popolo. Al tempo stesso potevano vincolare la vita della gente a regole e schemi sorpassati, a interpretazioni di parte della realtà, ad un moralismo legalistico e sterile: cose antiche, ma che si ripetono, di generazione in generazione.
Non è forse vero che veniamo da una formazione, se così si può chiamare l’indottrinamento ricevuto, che consisteva nel trasmettere verità di fede formulate su schemi filosofici ormai incomprensibili e basate su una lettura fondamentalista delle sacre scritture che ci hanno fatto credere in mondi immaginari ? La fede che ne è venuta fuori è un’obbedienza non convinta, un’accettazione passiva e rassegnata della conduzione del clero, un’osservanza superficiale di alcuni precetti, un ritmo celebrativo ridotto all’osso, da cui ricevere emozioni più che motivazioni ed entusiasmo per l’impegno quotidiano. Che ne è di quella fede prospettata da questa parabole fatta di desiderio, ricerca, sorpresa, discernimento, scelta, passione, gioia del trovare quel qualcosa di più importante su cui giocarsi tutta la vita?
Soprattutto in questi giorni strani e difficili è tempo di rivedere le cose antiche (tirare fuori) e discernere con saggezza quelle che hanno in se quel qualcosa che vale di più da quelle fattesi inutili e narcotizzanti, per poi spalancare le porte alle nuove, alle migliori, che sono già a portata di mano quando entri a tu per tu con quel tesoro e quella perla preziosa che sono il Vangelo e te ne lasci conquistare (entrare nella rete). Regno di Dio e il meglio di noi stessi coincidono… perché arrabbattarci ancora in sterili scaramucce intellettuali o legate alla ricerca della propria affermazione e non lasciarci invece folgorare dall’essenziale per cominciare a dare con gioia il meglio di noi stessi e a fare spazio al meglio degli altri, certo, come detto, con pazienza e lungimiranza, ma anche con la certezza che tutte queste parabole ci consegnano: il meglio comunque verrà.
Buona domenica, fra’ Mario.
UNO SPLENDIDO RACCOLTO PER I SEMINATORI DI SPERANZA
Carissimi fratelli e sorelle,
continuiamo in questa sedicesima domenica del tempo ordinario la lettura di alcune parabole sul regno dei cieli nel capitolo tredicesimo di Matteo: il buon grano e la zizzania, il seme di senape, il lievito.
Vorrei iniziare la mia riflessione proprio a partire dalla parabola del lievito, perché a volte anche nella preparazione di un’omelia si può correre il rischio di voler dire a tutti i costi qualcosa di completo, di importante, all’altezza di altri commenti… dimenticando che ogni nostro intervento è solo un piccolo contributo alla crescita di tutti, alla stregua di quella piccola quantità di lievito che fermenta tutta la pasta; una riflessione è solo un piccolo tentativo di cogliere una porzione di quella ‘verità’ che si rivelerà alla fine del processo di ricerca e di crescita sempre più ricca e articolata di quanto già intuito.
Il Regno dei cieli è simile al lievito… non è appariscente, non c’è bisogno di dosi massicce, non si impone… Il Signore dei cieli, il Dio di Gesù, non si manifesta con effetti speciali, pur essendo così potente da poterlo fare… ma, come leggiamo nel libro della Sapienza, giudica con mitezza… governa con molta indulgenza… è giusto perché ama gli uomini e gli concede sempre la possibilità di pentimento. Da Lui i figli del regno imparano a stare al mondo con mitezza e umiltà, senza sottarsi alla responsabilità di offrire il proprio contributo personale al bene di tutti.
Questo è il buon lievito, mi verrebbe da dire in questi nostri tempi in cui preferiamo il lievito madre ai fermentanti chimici, e controlliamo la durata della fermentazione … Un buon lievito e un tempo di fermentazione prolungato garantiscono alla fine una pasta buona di gusto e ben digeribile. Bontà di fondo e pazienza garantiscono un ottimo risultato, molto più di precise programmazioni o oscure macchinazioni. Questa è la prospettiva che il brano di oggi ci offre già a partire dalla prima parabola del buon grano e della zizzania.
Come la precedente del seme caduto sui vari tipi di terreno, anche questa si apre con l’immagine di un uomo che semina del buon grano nel suo campo, certo che porterà frutto. E’ importante notare come in questa raccolta di sette parabole le prime tre si aprano con l’immagine dell’uomo che semina e che questo capitolo si apre con il racconto di Gesù che esce di casa e si reca lungo il mare a seminare la Parola di Dio in chi si raduna per ascoltarlo, così come il papà dei cieli gli ha chiesto di fare. Il Dio di Gesù è, dunque, un instancabile seminatore di seme buono e ha uno sguardo molto lungo che sa tenere insieme le difficoltà della crescita e della maturazione con il risultato finale.
La presenza della zizzania in mezzo al grano non è da attribuire, dunque, al buon seminatore, ma ad un secondo agente: il nemico. Anche qui però non c’è da sfasciarsi la testa, né da illudersi: nessuno può vivere una vita priva di difficoltà o evitare il rischio di divenire lui stesso di ostacolo alla crescita del buon seme della Parola. Ai tempi di Gesù, la convivenza di piante buone e selvatiche, pure se queste fossero presenti per il dispetto di un nemico, era un fatto accettabile, sia perché non era facile separare con gli strumenti a disposizione i semi buoni da altri similari quando si mettevano da parte i semi per la semina della stagione successiva, sia perché molti semi sono diffusi naturalmente dal vento. Questo fa intuire a Gesù che più importante dello sradicamento delle erbacce è l’arrivo al frutto del seme buono, che un nemico potrà anche ostacolare, ma mai impedire del tutto. Al momento della mietitura le erbacce saranno accatastate per essere bruciate, mentre il grano buono riempirà i granai, alla faccia dei dispettosi e dei profeti di sventura.
Nei decenni che seguono la predicazione di Gesù, la comunità cristiana, a cui probabilmente risale la riflessione/spiegazione della parabola, vive una situazione davvero difficile sia per le persecuzioni esterne e sia per la zizzania interna: le divisioni, le debolezze, le cadute, le defezioni… La parabola del buon seme e della zizzania viene riletta e spiegata servendosi di quel linguaggio che chiamiamo apocalittico (rivelatore attraverso immagini forti delle grandi cose che stanno sotto agli eventi) e escatologico (rivelatore di ciò che avverrà alla fine): nell’ultimo giorno fornace ardente per i figli del maligno, operatori di scandali e iniquità, splendidi come il sole i giusti figli del regno. Lasciando, dunque, al Signore dei cieli di separare definitivamente il bene dal male (questo significa abbandonare atteggiamenti di impazienza e di insofferenza ed evitare la tentazione di esprimere noi giudizi e sentenze sugli altri) i credenti sono implicitamente invitati a crescere e maturare, giorno per giorno, e a far intravedere pure in mezzo alle tenebre le prime luci dello splendore finale.
Il paragone del piccolissimo seme di senape dal quale si svilupperà una pianta in grado di ospitare i nidi degli uccelli, al pari di quello del lievito, invita a riflettere sul fatto che la piccolezza degli inizi non è un condizionamento negativo, perché anche qui la crescita porterà ad un risultato strabiliante. Il regno di Dio, dunque, anche se può sembrare lontano, tuttavia è presente al punto che verrà il momento in cui diventerà incontenibile. Se i figli del regno si preoccupano allora di dimostrare la propria efficienza e il loro valore sbagliano completamente percorso. Umili, ma non marginali, operosi, ma non frenetici, inclusivi, e non operatori di arbitrarie selezioni, essi possono dare un contributo fondamentale alla lievitazione di tutta la pasta, alla crescita di tutta la pianta, e all’abbondanza del raccolto finale.
Carissimi fratelli e sorelle, riascoltare queste parabole nel difficile tempo della pandemia, ormai fattasi globale, in mezzo alle tante nubi oscure che si addensano sulla vita di gran parte dell’umanità, rappresenta un’occasione quanto mai propizia per recuperare le virtù della pazienza e della lungimiranza, la prospettiva di un futuro buono che includa tutti gli essere umani, quella operosità spicciola per cui l’insistere sulle piccole cose non è mai tempo perso. E’ tempo di non lasciarsi irretire dai seminatori di zizzania e di non diventarlo noi stessi coltivando le nostre limitatissime visioni di parte o stando sempre a palesare la delusione per le cose che non vanno come vorremmo, perennemente alla ricerca di un nemico a cui attribuirne la causa. In mezzo a tante prostrazioni e frustrazioni, anziché abbandonarci al piagnisteo e alla ricerca di facili consolazioni, assumiamoci le nostre piccole personali responsabilità e seminiamo speranza: il piccolo seme di una vita donata, anche aggrovigliandosi con le radici di semi di altro genere, genererà sempre e comunque uno splendido raccolto.
Buona domenica, fra’ Mario.
IL SEME E’ VINCENTE!!!
IL SEME E’ VINCENTE!!!
Carissimi fratelli e sorelle,
in questa quindicesima domenica del tempo ordinario iniziamo a leggere il capitolo 13 del vangelo di Matteo, dove, ancora una volta nella forma di discorso, ci vengono presentate alcune parabole di Gesù sul regno dei cieli, con alcune attualizzazioni operate dalla prima comunità.
La parabola che ascoltiamo oggi è quella del seminatore che sparge il seme in abbondanza e che certamente porterà molto frutto, anche se la resa è condizionata dal tipo di terreno su cui cade. Una parabola conosciutissima e importantissima, al punto che lo stesso Gesù, come riporta Marco (4,13), dirà: “se non capite questa come capirete tutte le altre” ?
Nella liturgia della Parola di oggi questa parabola è preceduta da un’altra famosissima del profeta Isaia: come la pioggia e la neve scendono dal cielo e non vi ritornano senza aver fecondato e fatto fruttificare la terra, così è della Parola che viene da Dio e che non tornerà a Lui senza aver compiuto ciò per cui è stata mandata.
Chi ha fatto un pellegrinaggio in terra santa non può non essere rimasto colpito dalla rigogliosità della pianura tra la Galilea e la Samaria, chiamata appunto per la sua fertilità: “Dio semina”.
Ed è questa la prima realtà su cui siamo chiamati a riflettere: il ‘mestiere di Dio’ è quello di seminare, seminare la sua Parola, in abbondanza, una Parola che porta frutto sempre, nonostante l’ostacolo di qualche asperità e qualche ritardo.
E’ questa sicuramente la certezza che si portavano dentro gli Apostoli e le prime comunità nella loro azione missionaria non priva di difficoltà e di insuccessi, come aveva previsto Gesù, ma fondata sulla consapevolezza che la Parola di Dio è più potente di ogni opposizione e porta frutto in maniera abbondante là dove non te lo aspetti. Quante volte lo stesso Luca estasiato dinanzi all’adesione di tanti alle comunità apostoliche, nel Libro degli Atti, sottolineerà che la Parola operava prodigi, cresceva e si diffondeva, moltiplicava il numero di coloro a cui il Signore cambiava radicalmente l’esistenza. Che cosa meravigliosa fidarsi di una Parola che porta sicuramente frutto!
Anche oggi, nel mezzo di questa pandemia, come non notare che, soprattutto durante il lockdown, chiusi in casa e senza la possibilità di vivere esperienze comunitarie a cui eravamo abituati, ciò che non ci è stato tolto è stata la possibilità di accostarci in maniera sovrabbondante alla Parola di Dio, seminata per ogni dove soprattutto attraverso i social, e come dubitare che questa semina porterà frutti che nessuno è ancora in grado di immaginare? Certo sono comprensibili le difficoltà di molti la cui vita di fede si alimentava di comunioni, di adorazioni, di preghiere di ogni genere, di pellegrinaggi nei più svariati santuari… ma proprio questo non deve essere interpretato come un invito ad un ritorno, senza ripensamenti e nostalgie, all’essenziale: alla Parola che Dio semina nel cuore di ciascuno e che porta frutto?
Non si può non provare un senso di tristezza nell’ascoltare da parte di alcune componenti della Chiesa Cattolica commenti, denunce, a volte vere e proprie sentenze, su un presunto pericolo di ‘protestantizzazione’, quasi che porre l’accento sul primato della Parola sia un peccato imperdonabile…, mentre invece uno dei problemi seri di oggi è aver cercato di ‘trasmettere’ e ‘mantenere per sempre’ di tutto (strutture imperiali romane e bizantine, forme cultuali paganeggianti, mediazioni filosofiche superate, mentalità inquisitorie…) tranne che l’amore per la Parola di Dio e la formazione dei fedeli per un approccio ad Essa serio e competente. Seminare la Parola è il compito fondamentale della Chiesa, così come lo è stato per Gesù, come la pioggia e la neve, venuto da Dio per fecondare gli uomini con la sua Parola, perché arrivino a compimento i desideri di Dio soprattutto nelle esistenze di credenti in cui la Parola abita e fruttifica.
“Il seminatore uscì a seminare”. Un’immagine bellissima di Dio e della forza della sua Parola, su cui Gesù ha impostato la propria missione: spargere il seme della Parola ovunque, senza volerlo imporre a tutti i costi confidando nelle proprie capacità persuasive, ma soltanto sorretto dalla convinzione della sua straordinaria bontà ed efficacia. E qui Gesù proclama un’altra beatitudine: beati voi che ascoltate e accogliete questo annuncio, che tanti avrebbero desiderato sentire, e che tanti, purtroppo, non vogliono ascoltare per la paura di dover cambiare radicalmente i propri modi di vedere e i propri stili di vita. E quando Gesù proclama una beatitudine vuol dire che ciò che annuncia fa la differenza nella vita e costituisce un nuovo punto di partenza, non ti lascia come sei, non ti riporta indietro, non conserva le cose di sempre, apre al futuro, al profondamento diverso, all’eccezionalmente più fruttuoso… chi vuole vivere questa esperienza si pone in un atteggiamento di uscita, di uscita da sé ancor prima che dalle sacrestie delle proprie convinzioni e autocelebrazioni… Quante volte Papa Francesco ci parla di “Chiesa in uscita”? Ma il primo modo di uscire è quello di rimettere al centro la Parola, di tornare ad ascoltare, di lasciarsi conquistare… Se si segue Gesù felici di essere attratti da lui, gli altri se ne accorgono, ci dice Francesco, e non c’è bisogno di uscire a fare indottrinamento, proselitismo, auto-promozione… la Parola quando è al centro conquista di suo e fruttifica in modo straripante, dando vita, laddove attecchisce, a forme diverse di ‘regno dei cieli’.
I credenti delle prime generazioni vennero presto a trovarsi di fronte, oltre ai rifiuti e alle persecuzioni, ad una inattesa difficoltà: la tiepidezza all’interno della comunità. Scriveva Giovanni alla chiesa di Laodicea (Ap 3,16): poiché sei tiepido, non sei cioè né freddo né caldo, sto per vomitarti dalla mia bocca. Un’immagine drammatica che ben ci fa comprendere la gravità della situazione. La stessa che affiora nella spiegazione/commento della parabola del seminatore: dopo che Gesù ha predicato alle folle gli Apostoli di ritrovano da soli con lui a disaminare i motivi per cui un seme così fecondo non sempre attecchisce e porta frutto (risonanza di una verifica permanente all’interno delle comunità cristiane). Il racconto qui si basa sull’uso dell’epoca di seminare il terreno incolto prima di ararlo, laddove potevano essersi formati dei sentieri, potevano essere affiorate pietre e cresciuti rovi… normale quindi che il seme potesse non attecchire dappertutto. Il racconto si fa straordinario, invece, nella descrizione della fruttificazione: una spiga nella terra di Gesù poteva portare 10 - 20 chicchi, in una stagione eccezionalmente favorevole anche 30… Gesù invece parla di una spiga che parte da 30 e può arrivare fino a sessanta e a 100… Ancora una volta il seme è vincente sulle asperità del terreno, ed è a partire da questa realtà che bisogna rileggere e far evolvere anche i propri momenti no, per non cadere in vittimismi frustranti o, peggio, sentirsi perseguitati da nemici immaginari.
Il seme è vincente… occorre ripeterlo quando il nostro cuore è impenetrabile come un terreno calpestato, quando la nostra vita è oppressa da prove che sembrano macigni, quando subiamo le seduzioni di facili successi e guadagni… Il seme è vincente… occorre ripeterlo anche quando le nostre comunità sembrano essersi inaridite per l’abitudinarietà, divenute sterili per le chiacchiere dei soliti noti, divenute spazi dominati dai primi attori, pronti a togliersi di scena se non gratificati a dovere… Il seme è vincente… occorre ripeterlo nelle nostre assemblee domenicali dominate dalla ripetitività e dallo scontato, dove si canticchiano canti fuori epoca o in stili di dubbia qualità, dove a stento si trova chi proclami le Sacre Scritture e i soliti leggono senza annunciare, dove fatta la comunione ognuno per sé e Dio per tutti…
Il seme è vincente, ripetiamocelo anche oggi, in qualsiasi stato d’animo siamo giunti a questo momento di ascolto: che la Parola torni ad esercitare su di noi tutto il suo fascino e a generare quei frutti che non sappiamo portare da soli.
Buona domenica, fra’ Mario.